Ogni giorno, in ogni spazio di allenamento, incontro corpi che non chiedono performance, ma presenza. Ricordo bene una frase ascoltata durante i miei primi corsi di formazione con la Functional Training School: “La persona non zoppica solo fisicamente, ma prima — e più spesso — zoppica mentalmente.” (Giovanni Ciaramella) Da allora non riesco più a guardare un gesto senza chiedermi cosa lo sostiene dentro. Perché ogni movimento, anche il più incerto, racconta qualcosa che non sempre si vede. E per me, l’allenamento funzionale è diventato ascolto prima che correzione, percezione prima che protocollo. Perché il gesto è vivo solo quando è abitato.
Nel training funzionale moderno si parla spesso di “corretto pattern motorio”, ma dimentichiamo che ogni gesto esprime una storia neuro-motoria. Secondo Bernstein, uno dei padri della fisiologia del movimento, il corpo non ripete mai due volte lo stesso schema: “Il movimento non è riproduzione, ma costruzione dinamica continua.” Ogni allievo porta con sé un bagaglio di compensi, traumi, abitudini e assenze. Il nostro compito, come istruttori, non è cancellare quei tracciati, ma guidare verso una nuova consapevolezza corporea, integrando il gesto alla persona, non imponendolo.
Quando i miei allievi arrivano, la mia prima domanda è sempre: “Come stai?” Non è una formalità. È una domanda ampia, profonda, che ambisce a capire tutto, o quasi: come stanno nel corpo, nella testa, nelle pieghe della giornata. Perché allenare non è mai solo “portare a termine” un esercizio, ma riconoscere chi abbiamo davanti in quel momento preciso.
Che si tratti di bambine o adulti, spesso chiedo anche: “Hai capito cosa intendo davvero con questa parola?” Non do mai per scontato che il linguaggio tecnico venga compreso al volo, perché molte persone non hanno un background motorio né hanno mai avuto un istruttore che li invitasse ad ascoltarsi. Ed è lì che il mio ruolo cambia forma: semplifico senza banalizzare, traduco senza perdere profondità, e soprattutto, ascolto le risposte non solo verbali, ma corporee. Quando a fine allenamento un allievo mi dice di sentirsi soddisfatto, anche se stanco, so che abbiamo rimosso un pezzo di comfort zone. E quella è crescita vera.
Negli anni ho imparato che non esiste un modo univoco per insegnare un gesto, così come non esiste un solo modo per abitare il proprio corpo. Alcune persone arrivano con rigidità evidenti, altre con blocchi invisibili. In entrambi i casi, sento che il mio compito è accompagnarli non solo ad ‘eseguire’, ma a scoprire un modo personale, funzionale e sentito di stare nel movimento. La scuola che abbraccio, la Functional Training School, mi ha insegnato che la tecnica senza presenza è vuota, e che l’efficienza nasce solo dall’integrazione tra struttura, percezione e intenzione.
L’idea che esista un movimento “perfetto” è superata. La teoria dei sistemi dinamici, applicata al motor learning, ci insegna che l’apprendimento motorio efficace avviene attraverso variabilità adattativa, non ripetizione sterile. Un piede che si solleva prima di un push press non è solo un errore, è una strategia che il sistema nervoso sta tentando, in cerca di equilibrio. L’istruttore attento non corregge meccanicamente, ma osserva, decodifica, accompagna.
Come istruttori, non possiamo essere solo tecnici del gesto. Dobbiamo diventare facilitatori di relazione tra corpo e mente. Ogni lezione è uno spazio di co‑costruzione. Io mi metto in ascolto prima di proporre, e invito l’altro a sentirsi, prima ancora di eseguire. “Nel mio modo di allenare, c’è sempre una pausa prima del gesto. In quella pausa, ascolto chi ho davanti.”
Il mio lavoro non è correggere movimenti, ma aiutare le persone a tornare in contatto con la loro autenticità attraverso il corpo. Allenarsi significa imparare a fidarsi di sé. E se il gesto diventa consapevole, allora non stiamo solo insegnando fitness: stiamo educando alla vita.
Elisa Zumbo
Allenatrice di ginnastica ritmica, personal trainer e docente in formazione presso la Functional Training School.